Ripensare l’amministrazione pubblica al servizio del cittadino: problemi e prospettive
di Marco Bevilacqua
ABSTRACT: I recenti interventi del «governo legislatore»[1] testimoniano l’assenza di una vision di come dovrà essere l’amministrazione pubblica del futuro, e certificano invece l’apprensione di garantire l’efficiente gestione dei fondi derivanti dal NgEu. In luogo di una riforma in senso tradizionale, sarebbe opportuno un cambio di prospettiva affinché sia assicurato il diritto al buon governo.
L’esigenza di riformare la pubblica amministrazione costituisce, da almeno mezzo secolo, uno degli argomenti più discussi sia a livello mediatico che sul piano accademico. Ci si deve chiedere, invero, se l’amministrazione pubblica, così come è oggi strutturata, sia idonea a soddisfare i bisogni dei cittadini e soprattutto se, in situazioni emergenziali, sia in grado di fornire risposte celeri e adeguate.
Nel corso degli ultimi decenni si possono registrare diversi tentativi di apportare un miglioramento alla macchina dello Stato. Tuttavia è con la “riforma Bassanini” (1996-2001) che venne operato un significativo cambiamento dopo oltre cento anni di stazionamento della pubblica amministrazione. La riforma venne attuata in un contesto socio-politico in cui l’azione pubblica era governata dalla principale esigenza di ridurre il debito pubblico – che nel 1994 ammontava al 124,9% del Pil. La situazione drammatica di allora non sembra essere più grave di quella odierna, considerato che il rapporto debito pubblico/Pil per il 2020 si è assestato al 155,6%, mentre per il 2021 si è registrato un lieve calo (154,8%).
Con la riforma in parola si contribuì a gettare le basi per una rivoluzione culturale nella pubblica amministrazione perfomance-oriented, sostituendo all’approccio giuridico- formale, in cui contano solo regole e procedure, il servizio al cittadino-fruitore dell’attività amministrativa. Tuttavia, l’attività di ridefinizione del «dover essere»[1] d’intere organizzazioni pubbliche ha trascurato l’esigenza di accompagnarvi il riordino dei mezzi finanziari e la riqualificazione delle risorse umane.
La più recente “riforma Brunetta” del 2009 non fu così innovativa rispetto al precedente intervento normativo in quanto si limitò a recuperare princìpi già presenti nell’ordinamento, come quelli della performance e del merito, per porli nel prisma della responsabilità dei funzionari pubblici.
In parziale discontinuità con l’intervento normativo del 2009, la “riforma Madia” (2015-2017) confluì nel processo, particolarmente diffuso in Francia, detto di codificazione, di cui se ne rinviene traccia nei decreti di riordino dell’organizzazione amministrativa. Si pensi, ad esempio, al testo unico sulle società a partecipazione pubblica (d.lgs. n. 175 del 2016), al codice dei contratti pubblici (d.lgs. 50 del 2016) e al codice della giustizia contabile (d.lgs. n. 174 del 2016). Tuttavia, a causa dei numerosi dubbi interpretativi, la giurisprudenza amministrativa e contabile è intervenuta, a più riprese, per porvi rimedio.
Con il Next Generation EU e con il conseguente Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, l’impellenza di rafforzare la capacità amministrativa dell’apparato burocratico è divenuta ancora più cogente. In tale ottica, il governo ha adottato il decreto-legge n. 80/2021, convertito nella legge n. 113/2021, su cui si rinvia al contributo pubblicato in questo Blog, di Antonella Bianconi, Ancora su PNRR e PA: Il Piano integrato (?) di attività e organizzazione. Si tratta, tuttavia, di un intervento normativo dettato dall’esigenza di porre fine a un’idea di pubblica amministrazione assente, inerte, lontana dalle esigenze dei cittadini, che non corrisponde interamente al vero.
Il principale problema che attiene al PNRR, ad avviso di chi scrive, è quello gestionale, non già sotto il profilo delle ingenti risorse derivanti dai fondi europei – che di per sé costituisce un nodo alquanto complesso da sciogliere – bensì soprattutto rispetto ai singoli ambiti delle riforme e investimenti programmati. Permangono, infatti, molteplici dubbi circa l’adeguata separazione della politica dai processi decisionali. Ciò rileva al fine di scongiurare il rischio che i governi del futuro possano “stravolgere” quanto già progettato in precedenza. Purtroppo questo rischio è più concreto di quanto si possa immaginare, per due ordini di motivi: da un lato, l’instabilità politica che caratterizza il nostro Paese da più di un decennio; dall’altro, il disegno del sistema di governance del PNRR, che prevede una cabina di regia politica al centro e due snodi tecnici: la Segreteria tecnica presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, a supporto diretto della cabina di regia politica e il Servizio centrale del PNRR presso il Ministero dell’economia e delle finanze, con un ruolo di coordinamento operativo generale e di punto di contatto unico con la Commissione europea.
In generale, le misure che il governo sta adottando in vista della gestione del PNRR sembrano siano volte a elidere la figura del «funzionario fannullone», in un inquadramento errato e miope dell’apparato burocratico.
Difatti, la burocrazia è una presenza inevitabile in ogni società organizzata. Si pensi all’iniziativa economica dei privati: se non si ponessero limiti e confini all’azione privata si rischierebbe di cadere in uno stato di anarchia in cui l’effettività della tutela dei diritti fondamentali risulterebbe fortemente compressa. Così descritta, la burocrazia assume la forma di controllo essenziale alla garanzia dei diritti fondamentali.
Orbene, resta il problema, non di poco conto, di come riavvicinare l’amministrazione alle esigenze della collettività e non già a quelle del singolo amministrato.
Di recente, Carlo Cottarelli qualificò la pubblica amministrazione come un coacervo di procedure farraginose e complesse che contribuiscono a disegnare un apparato burocratico elefantiaco e lontano dai bisogni dei cittadini, avanzando alcune proposte di riforma. Ciò è evidentemente vero, ma non si può pretendere di riformare l’ordinamento burocratico con un solo intervento legislativo. La classe politica attuale risulta, in effetti, priva di una visione chiara di come dovrà essere la pubblica amministrazione del futuro. E ciò incide sull’esigenza di rimuovere gli ostacoli, economici e sociali, affinché possa essere garantita l’eguaglianza formale e sostanziale di cui all’art. 3 della Costituzione.
Pertanto, quando si parla di riformare l’apparato burocratico in realtà si dovrebbe tenere a mente l’opportunità di garantire il diritto a una buona amministrazione, che implicitamente si ricava dalla lettura combinata tra l’art. 97, terzo comma, della Costituzione, l’art. 1, comma 1 della legge n. 241 del 1990, nonché l’art. 41 della Carta di Nizza. Queste norme debbono essere interpretate nell’ottica di assicurare certezza ed efficienza nei rapporti col cittadino. Più precisamente, la funzione pubblica assume il ruolo di depositaria della fiducia degli amministrati in quanto si ingenera automaticamente, nel rapporto Stato-cittadino, l’affidamento sull’impegno di perseguire l’interesse generale con imparzialità, efficienza, efficacia, economicità, ma soprattutto secondo l’etica ed equità.
Non può dirsi concretamente riuscito il tentativo di Franco Bassanini di portare al centro dell’attività amministrativa le esigenze del cittadino, in un contesto socio-economico-politico, come quello attuale, in cui il ritorno dell’intervento pubblico in taluni settori del mercato si è reso più pressante a fronte dell’inefficienze dei gestori privati.
Prima la crisi economica del 2008, poi quella dovuta all’emergenza epidemiologica da COVID-19, hanno dimostrato che taluni servizi debbono rimanere essenzialmente pubblici e che privatizzare non ne garantisce l’erogazione efficiente. Si pensi, a titolo esemplificativo, agli strumenti di partenariato pubblico-privato disciplinati dal d.lgs. n. 50 del 2016 (c.d. codice dei contratti pubblici): il fatto che gli enti locali possano affidare la gestione di un servizio essenziale a un privato, proponendogli a titolo di corrispettivo degli sconti fiscali (come nel baratto amministrativo) o altri “trattamenti di favore”, non è invero sintomo dell’inefficienza dell’azione amministrativa?
Alla (rischiosa) tendenza a una massiccia privatizzazione dell’apparato burocratico debbono necessariamente corrispondere controlli più intransigenti sulla funzione pubblica assolta dai privati. Difficilmente si possono ritenere adeguati gli uffici di auto-controllo (o controlli interni) strutturati nell’ambito delle amministrazioni stesse, dato che sono ontologicamente privi di autonomia e indipendenza.
In conclusione, l’efficienza della pubblica amministrazione non dipende solo da una riorganizzazione degli uffici, bensì anche dei mezzi finanziari. Sicché, per uscire dall’impasse, l’amministrazione non necessita di essere “distrutta” ma di essere riqualificata; non serve sostituire, semplificare o “tagliare”; occorre integrare. Ciò in quanto, le riforme di pubbliche amministrazioni da sole non basteranno: come anticipò Massimo Severo Giannini nel suo Rapporto del 1979, «occorrerà che [le riforme] siano accompagnate da modernizzazione delle leggi regolative dell’azione amministrativa[, affinché sia garantita] la pace tra pubbliche amministrazioni e cittadini. La pace, non la fiducia, perché questa non dipende da leggi».
[1] R. Cavallo Perin, Dalle riforme astratte dell’amministrazione pubblica alla necessità di amministrare le riforme, in Dir. pubbl., 1, 2021, p. 74.
[1] S. Cassese, Il governo legislatore, in Giorn. dir. amm., 5, 2021, p. 557 ss.
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