Separazione delle carriere: le ragioni del sì
di Sigfrido Fènyes e Marianna Poletto
Foro di Firenze
La separazione delle carriere è oggetto di un dibattito che ha radici lontane e che periodicamente agita l’opinione pubblica tornando al centro dell’agone politico, non senza strumentalizzazioni.
La discussione si è evidentemente vivacizzata a seguito del progetto di riforma costituzionale, di recente approvato dal Governo in carica.
Il ricordo va immediatamente intorno all’anno 1989, allorquando nel nostro ordinamento venne introdotto (l’allora) nuovo codice di procedura penale, il cosiddetto codice Vassalli.
Fu proprio quest’ultimo che, non ancora ministro ma Presidente della Commissione Giustizia del Senato, in occasione di un’intervista oggi da molti ripresa, rilasciata nel 1987 a un quotidiano inglese (la Gran Bretagna è paese di puro rito accusatorio), ebbe ad affermare, commentando l’imminente riforma, che “parlare di sistema accusatorio laddove il pubblico ministero è un magistrato uguale al giudice, che ha… che non avrà più gli stessi poteri del giudice come li ha oggi, ma che continuerà a far parte della stessa carriera, degli stessi ruoli … essere colleghi eccetera, è uno dei tanti elementi che non rendono molto leale parlare di sistema accusatorio”.
Sul codice appena nato intervenne la scure della Corte costituzionale, limitandone la fisionomia per adattarlo ad un Paese nel quale era – ed è – fortemente radicata una cultura inquisitoria.
Da quegli anni ad oggi, su questo tema si è tornati spesso, in passaggi talvolta orientati nel senso della separazione delle carriere e talaltra, per così dire, di resistenza.
Si ricorderanno, ad esempio, gli anni Novanta, quelli dei governi Berlusconi, oppure la significativa riforma dell’art. 111 della Costituzione (1999), che ha recepito un modello di giurisdizione strutturato come una “triade”, alla cui base stanno le due parti, accusa e difesa, e al cui vertice è collocato il giudice, in posizione che, proprio secondo quel modello, dovrebbe essere paritaria ed equidistante dalle parti medesime.
Varie anche le iniziative popolari: quella del referendum promosso dai Radicali nel 2000, che non ha raggiunto il quorum nonostante i quasi dieci milioni di voti a favore; la raccolta di firme organizzata dall’Unione delle Camere Penali nel 2017, grazie alla quale oltre 72.000 cittadini hanno apposto il loro nome a sostegno di una legge di iniziativa popolare di riforma costituzionale, infine presentata alla Camera il 31 ottobre 2017; il nuovo referendum di Lega e Radicali nel 2022, ancora una volta senza il raggiungimento del quorum.
Gli argomenti dei detrattori sono noti: si invoca la necessità che magistratura giudicante e magistratura requirente restino unite, nel nome della tanto richiamata “cultura della giurisdizione”; si agita lo spettro di un pubblico ministero – poliziotto, sottoposto al potere esecutivo e non più indipendente; si argomenta, numeri alla mano, che i “cambi di casacca”, e cioè i passaggi dalla funzione di pm a quella di giudice o viceversa, si attestano su pochissimi casi all’anno.
Ciascuna di queste critiche trova facilmente risposta: lungi dall’indebolire l’indipendenza della magistratura, il disegno di legge costituzionale di recente approvazione, ove attuato, costituirebbe un grande passo in avanti verso una reale garanzia di terzietà e imparzialità del giudice, finalmente avvicinando il nostro sistema al modello accusatorio reale.
Nessun rischio che il pubblico ministero perda autonomia: l’eventualità è totalmente scongiurata dall’istituzione di due distinti CSM (quello della magistratura requirente e quello della magistratura giudicante), con il Presidente della Repubblica a capo di entrambi.
Si prevede poi la formazione di un’Alta Corte (composta da professori universitari, avvocati e magistrati delle due funzioni), cui sarebbe affidata la potestà disciplinare.
Arginare i pochi annuali passaggi di funzione non è il primario obiettivo della riforma costituzionale, che mira piuttosto, condivisibilmente, ad assicurare la differenziazione delle due professionalità e la separazione dei ruoli, così rafforzando le prerogative di ognuno.
Cultura del diritto, autonomia ed indipendenza di ciascuno dei soggetti del processo sono gli obiettivi da raggiungere, per tutti, nessuno escluso. Per giudici e pubblici ministeri il nuovo modello costituzionale può garantire un idoneo sistema di salvaguardia.
Un utile contributo potrà essere offerto anche dal nuovo assetto disciplinare delineato dal progetto di riforma, attraverso il consolidamento di più stringenti valutazioni di professionalità, in modo da recuperare la fisionomia del ruolo che il codice assegna al pubblico ministero, ad esempio con riferimento all’art. 358 c.p.p., vale a dire all’obbligo di accertare anche fatti e circostanze favorevoli all’indagato. Così facendo, si restituirebbe alla fase delle indagini preliminari la funzione di filtro di ciò che è meritevole dell’esercizio dell’azione penale rispetto a ciò che non lo è, con conseguente alleggerimento del carico di lavoro che grava sui giudici e ricadute positive in termini di efficienza e rapidità della macchina della giustizia.
Questo sì che sarebbe un rafforzamento dell’autonomia e dell’indipendenza del pubblico ministero rispetto a qualsivoglia altro potere dello Stato.
È di queste ore la notizia dell’abrogazione del reato di abuso d’ufficio: quando le percentuali di assoluzione riferite a determinate fattispecie sono così elevate, la ragione può anche risiedere, evidentemente, nel fatto che arrivano ai Tribunali procedimenti che avrebbero dovuto essere definiti ben prima dalle Procure, con richieste di archiviazione.
Con il “nuovo” pubblico ministero, indipendente e parte, collocato insieme all’avvocato alla base di quel triangolo immaginario, un nuovo giudice, davvero terzo, è e, significativamente, appare imparziale.
Se oggi è assai raro imbattersi in rigetti delle richieste avanzate dalle Procure, specialmente nella fase delle indagini preliminari (misure cautelari, autorizzazione alle intercettazioni, proroghe del termine delle indagini e così via), l’autonomia finalmente conferita al giudicante potrà dare un importante contributo a invertire la rotta.
L’Italia si allineerebbe a ordinamenti come quelli di Portogallo (cui l’attuale disegno di legge è fortemente ispirato), Spagna, Francia, Germania, Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Australia.
Gli argomenti sono tali e tanti da non aver bisogno di essere legittimati da attribuzioni di paternità, ma sarà utile ricordare che fu lo stesso Giovanni Falcone, in un’intervista resa a Repubblica nell’ottobre del 1991, ad affermare che “un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono, quindi, esperienze, competenze, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obbiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il pm sotto il controllo dell’Esecutivo”.
Concludendo. È proprio il cosiddetto rito accusatorio, vigente nel nostro sistema, ad esigere la parità assoluta delle parti e l’esatta equidistanza del giudicante.
L’autonomia e l’indipendenza sono senz’altro valori irrinunciabili, ai quali ogni soggetto partecipe all’esercizio della giurisdizione deve uniformarsi, giudici, pubblici ministeri ed avvocati compresi. È questione di civiltà.