Sui limiti al potere dell’uso della forza fisica da parte dello Stato
di Chiara Tripodina
1. Il 23 febbraio 2024, nel corso di manifestazioni studentesche in sostegno al popolo della Palestina, a Pisa e a Firenze vi sono stati scontri di piazza tra i manifestanti e le forze dell’ordine, a esito dei quali si sono avuti diciassette feriti tra i manifestanti – di cui undici minorenni – e cinque tra gli agenti di polizia.
Il giorno successivo, come si apprende da una nota pubblicata sul sito del Quirinale, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha tenuto un colloquio con il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, ricordandogli che «l’autorevolezza delle Forze dell’Ordine non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente opinioni. Con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento».
Dopo un silenzio lungo cinque giorni, il 28 febbraio la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, nel corso di una trasmissione televisiva sulle reti pubbliche, Tg2 Post, ha affermato: «io penso che sia molto pericoloso togliere il sostegno delle istituzioni a chi ogni giorno rischia la sua incolumità per garantire la nostra: è un gioco che può diventare molto pericoloso».
Alla luce di questi scontri tra manifestanti e forze dell’ordine – che sono solo i più recenti, ma non certo gli unici né i più gravi nella nostra storia repubblicana – e delle note o dei commenti istituzionali che ne sono seguiti, vale la pena tornare a riflettere sui fondamenti e sui limiti del potere dell’uso della forza fisica da parte dello Stato.
2. Il monopolio dell’uso della forza fisica – il diritto e il potere esclusivo del sovrano di esercitare, su un determinato territorio e nei riguardi degli abitanti di quel territorio, la forza fisica mediante la predisposizione di un apparato autoritario permanente e preminente, così da ottenere obbedienza ai comandi – sin dalle prime teorizzazioni dello Stato moderno è stato indicato, insieme a popolo e territorio, quale elemento costitutivo dello Stato. Anzi, come suo tratto più distintivo e caratterizzante [icastica la definizione di M. Weber, La politica come professione (1919), Torino, Einaudi, 2004, 48: «Lo Stato è quella comunità di uomini che, all’interno di un determinato territorio […], pretende per sé (con successo) il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica (Monopol legitimer physischer Gewaltsamkeit)»].
Se lo Stato pone le sue fondamenta e trova la sua legittimazione nel patto sociale, prima pietra di tale patto è la rinuncia da parte di tutti i membri della comunità politica all’uso della spada privata e l’affidamento esclusivo alla spada pubblica per il governo della sicurezza, l’amministrazione della giustizia, l’esecuzione delle pene [a partire da T. Hobbes, Leviatano o la materia, la forma e potere di uno Stato ecclesiastico e civile (1651), Roma-Bari, Laterza, 2000].
La storia dello Stato si intreccia così, sin dall’origine, con la teorizzazione del monopolio dell’uso della forza fisica come unica risposta razionale in grado di garantire la sopravvivenza della società a se stessa; unico antidoto efficace contro la violenza privata, fatto della medesima sostanza del veleno da sconfiggere, ma conferito in dosi minori e controllate.
3. E tuttavia non senza pericoli: se l’uso della forza viene sottratto ai singoli, risucchiato e incorporato in un unico punto della società – nelle mani del sovrano –, non si è al riparo dal rischio di una sua possibile trasfigurazione in violenza bruta: il potere serba sempre in sé, nonostante tutto, «un potenziale di minaccia e sfrenamento» [G. Preterossi (a cura di), Potere, Roma-Bari, Laterza, 2007, XXII]. Un uso sconsiderato e incontrollato di questa immensa forza, somma di tutte le forze individuali, potrebbe sempre abbattersi con la violenza di un’enorme frusta sull’intera società, con danni immani.
Nelle ricostruzioni teoriche più risalenti sul monopolio dell’uso della forza fisica dello Stato questo spaventoso rischio non è ignorato, e tuttavia non si prevede alcun limite all’assolutezza del potere del sovrano: l’insicurezza che deriva dal difetto di potere è ritenuta più temibile dell’oppressione che deriva dall’eccesso di potere. Nelle elaborazioni successive si fa invece progressivamente più acuto il timore per il potenziale di sfrenamento del potere e più lucida la consapevolezza, determinata dall’esperienza storica, della possibilità di vedere tracimare la forza in violenza [Per le ricostruzioni teoriche sul monopolio dell’uso della forza fisica, v. C. Tripodina, Potere e uso della forza (voce), in Enciclopedia del Diritto, volume Potere e Costituzione (a cura di M. Cartabia, M. Ruotolo), Milano, Giuffrè, 2023, 632 ss.].
Proprio per questo, per minimizzare i rischi della trasfigurazione del potere ed evitare di «incrociare lo sguardo sbarrato della testa di Gorgone» [H. Kelsen, Gleichheit vor dem Gesetz im Sinne des Art.109 der Reichsverfassung, in Verhandlungen der Deutschen Staatsrechtslehrer, Heft 3, De Gruyter, Berlin-Leipzig 1927, 55], si chiama in causa il diritto, interponendolo stabilmente nel rapporto tra potere e uso della forza. Il diritto non è più solo inteso come “strumento del potere”, funzionale a conferire legittimità ed esecutività ai suoi ordini, ma come “limite al potere”, in grado di influenzarne la scelta dei fini e l’uso dei mezzi. È questo il ruolo che il costituzionalismo gli assegna: «porre limiti giuridici all’esercizio del potere» e garantire la «certezza che questi limiti non saranno oltrepassati» [H. Kelsen, Chi dev’essere il custode della costituzione? (1929), in La giustizia costituzionale, Torino, Einaudi, 1981, 232]. Le Costituzioni del Novecento si caratterizzano proprio per questo: per la creazione di un complesso sistema di limiti, controlli e bilanciamenti, attraverso i quali organizzare, disciplinare, circoscrivere in forme giuridico-istituzionali la forza dello Stato, altrimenti selvaggia e sfrenata [L. Ferrajoli, Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana, Roma-Bari, Laterza, 2011].
L’unico uso legittimo della forza diviene quello che sta nel recinto tracciato dal diritto, a salvaguardia della pace sociale, dei diritti e della dignità delle persone.
4. Neppure lo Stato costituzionale, tuttavia, con le sue guarentigie e le sue accortezze, è totalmente immune dal rischio che l’uso della forza si tramuti in violenza. Anche quando si tracciano netti confini, essi non salvano dalla possibilità del loro travalicamento.
Lo raccontano, anche nella storia recente dell’Italia repubblicana, i casi di uso smodato della forza nell’esercizio delle funzioni di pubblica sicurezza e di violenza perpetrati nei confronti di persone sotto la custodia delle forze dell’ordine: dentro le carceri [basti ricordare i fatti nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere, nell’aprile del 2020] o fuori, nelle pubbliche piazze [per tutti, i fatti del G8 di Genova nel luglio del 2001].
Si tratta di casi limitati e circoscritti, che rappresentano un’anomalia patologica rispetto a un contesto fisiologico in cui l’esercizio dell’uso della forza avviene nel rispetto dei fini e dei mezzi previsti dal diritto. E tuttavia, quando si verificano, sono di una gravità inaudita, rappresentando il più alto e compiuto tradimento di quel patto sociale da cui il monopolio dell’uso della forza origina: un patto per il quale si rinuncia all’uso della forza individuale per essere dallo Stato protetti; non brutalmente aggrediti, pestati, uccisi, per di più quando si è in condizioni di minorità e fragilità.
Il patto sociale è salvo solo se la reazione dello Stato contro tali episodi e contro i soggetti che ne sono responsabili è di condanna totale e intransigente. Diversamente lo Stato si rende corresponsabile della violenza, con ciò sgretolando la stessa ragion d’essere del patto sociale e sciogliendo i membri della comunità dal vincolo del suo rispetto. Lo Stato che abusa del monopolio della forza segna la fine di ciò per cui esiste e il ritorno al bellum omnium contra omnes.
Per altro il patto è violato non solo quando lo Stato tramuta l’uso legittimo della forza in violenza, abusando del suo potere, ma anche quando, all’opposto, rinuncia al suo potere e al suo monopolio, ampliando i casi in cui i membri della società possono legittimamente tornare a impugnare la spada per farsi giustizia da sé. In questo caso lo Stato ammette la propria assenza, o comunque la propria incapacità di intervenire tempestivamente per garantire la pace sociale e, non dissimilmente da quando abusa della sua forza, anche quando vi rinuncia l’esito non può che essere lo scioglimento del patto sociale e il ritorno alla guerra di tutti contro tutti.
5. Per scongiurare scenari così infausti, occorre – per dirla con Eligio Resta – «scommettere sulla differenza del diritto» [E. Resta, La certezza e la speranza. Saggio su diritto e violenza, Roma-Bari, Laterza, 2006, XI ], e in particolare sulla differenza tra diritto e violenza. Occorre cioè scommettere sul fatto che, nonostante il diritto sia indissolubilmente legato al potere e alla forza, tanto da essere stato definito come «l’ordinamento della forza» [H. Kelsen, La dottrina pura del diritto (1960), Torino, Einaudi, 1966, 243], tuttavia questo legame si spezza – si deve spezzare – quando l’uso della forza tracima in violenza.
Scommettere sul diritto significa che non può essere definito “Stato di diritto” uno Stato che fa uso della violenza per perseguire i suoi fini. Significa credere che, in uno Stato in cui vige il diritto come limite al potere, questo non può tramutarsi in potere violento; e se accade, vi sono gli strumenti giuridico-istituzionali per sanzionarlo e ricondurlo negli argini.
È una scommessa che non si vince una volta per tutte: non basta scrivere in Costituzione il ripudio di «ogni violenza fisica e morale» (art. 13.4 Cost.). Occorre vigilare ogni giorno: la scommessa deve essere continuamente replicata nelle pratiche quotidiane della vita dello Stato.
E ogni volta che la violenza si palesa nelle azioni e nelle parole di “uomini dello Stato”, la condanna da parte dello Stato – di chi è titolare di potere politico, della magistratura, dei custodi della Costituzione – deve essere immediata, assoluta, senza zone d’ombra. Altrimenti la scommessa è persa. Con ciò che di tragico ne consegue.