Una breve riflessione sul ruolo formativo del dottorato di ricerca
di Chiara Gentile
Il rapporto Psicopatologia del dottorato di ricerca pubblicato dall’Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca (ADI) in Italia e commentato in questo blog da Giulio Vesperini apre al dibattito su una questione centrale – anche se spesso trascurata – della realtà accademica: quella delle condizioni di lavoro e della salute mentale delle dottorande e dei dottorandi di ricerca. Il rapporto indaga, nello specifico, le cause strutturali del “malessere psicologico” delle/i giovani studiose/i. Tra di esse, un peso determinante è attribuito alla spinta continua alla produttività che caratterizza i dottorati di ricerca. Muovendo da questo dato, nel presente post vorrei dapprima soffermarmi sul problema della produzione scientifica “bulimica” promossa nell’ambiente universitario e, in secondo luogo, provare a svolgere una breve riflessione sul ruolo formativo del dottorato di ricerca, quale (necessario) vettore di crescita (anche) culturale-“intellettuale” delle/i giovani studiose/i. I due temi sono diversi, ma strettamente interconnessi, e pertanto necessitano di un’analisi congiunta. Il comune denominatore è il tempo, una risorsa limitata: il tempo che si dedica all’attività di produzione scientifica è tempo (almeno parzialmente) sottratto a una solida formazione teorico-concettuale e metodologica.
Rispetto al primo tema, il fulcro del ragionamento è ben delineato da un estratto del romanzo di Dario Ferrari, La ricreazione è finita, che racconta dell’esperienza universitaria di Marcello, dottorando in Lettere. Appena ammesso al corso di dottorato, nell’intento di comprendere le dinamiche del mondo accademico, Marcello si confronta con un collega più inserito. Discutendo di quando, come e perché si pubblichino contributi scientifici, il collega spiega a Marcello che «non si tratta tanto di cultura, quanto di politica. […] Ora, nel migliore dei casi, scrivi un articolo perché hai una cosa da dire, o comunque vuoi dare il tuo contributo a una discussione su un tema che conosci. Ma nella maggior parte dei casi gli articoli si scrivono per motivi extraculturali, ovvero semplicemente per fare massa, aggiungere una voce al curriculum, entrare in un volume in onore di qualcuno, creare una relazione con la cordata che dirige una rivista, dare un senso a un assegno di ricerca, produrre un corrispettivo concreto di un lavoro altrimenti inquantificabile, avere punti per ottenere l’abilitazione nazionale o, in un numero non irrilevante di casi, per mera vanità» (ivi, p. 63).
Tale descrizione pare piuttosto fedele alla realtà. È noto, infatti, che “fare massa”, pubblicando sullo stesso tema più articoli scientifici, con differenze più formali che sostanziali, è ormai una prassi – naturalmente con eccezioni – che prende avvio sin dai primi passi nella realtà accademica, durante il dottorato di ricerca, con ineludibili ripercussioni sulla qualità dello studio di fondo. Difatti, l’attività di produzione scientifica porta via tempo, soprattutto agli esordi, in cui la/il giovane ha bisogno, da un lato, di dedicarsi allo studio (almeno) di quelle opere fondanti e imprescindibili della propria materia, e, dall’altro, di acquisire gli strumenti per sviluppare un rigoroso metodo di ricerca e analisi. Per fare un esempio, testi fondanti delle discipline giuridiche giuspubblicistiche di autori quali Santi Romano, Hans Kelsen, Carl Schmitt, solo per citarne alcuni, richiedono (e quindi portano via) tempo per un’attenta lettura e comprensione.
L’aspetto formativo del dottorato può quindi risultare compromesso dall’obiettivo di “produrre” e rimpolpare il proprio curriculum, onde avere la stessa o, meglio, una maggiore quantità di pubblicazioni di altre/i colleghe/i, nella logica del publish or perish. In questo modo, il dottorato di ricerca rischia di tradursi in una corsa il cui traguardo è il raggiungimento di un certo numero di pubblicazioni (quantità), troppo spesso a discapito del rigore metodologico, del grado di approfondimento dei temi e dell’innovatività dei risultati (qualità). D’altronde, è noto (anzi, lamentato: cfr. il contributo di Fulvio Cortese) che il procedimento valutativo e di carriera «privilegia indici quantitativi rispetto a parametri qualitativi». E si tratta purtroppo di un meccanismo di cui siamo tutte/i, in misura maggiore o minore, vittime e complici.
A ciò si aggiunga che la pressione esercitata dalla suddetta logica del publish or perish sulle/i dottorande/i incide di riflesso sulla loro salute mentale, come evidenziato dallo stesso rapporto di ADI, pp. 33-34, nonché, già prima, da uno studio pubblicato su Nature un paio di anni fa (Woolston, 2022), da cui emerge che la popolazione dottorale, ultimo grado della catena alimentare nell’Accademia, è particolarmente interessata dal fenomeno del burnout. Tutto ciò ingenera un circolo vizioso: i problemi di salute mentale e burnout pregiudicano a loro volta, significativamente, la produzione scientifica e la qualità della ricerca stessa (rapporto ADI, p. 15).
Il secondo tema della presente analisi – strettamente legato al primo – riguarda la funzione dottorato di ricerca nello “sviluppo culturale-intellettuale” delle/i giovani studiose/i. La mia prospettiva è inevitabilmente orientata alla figura del giurista, ma le considerazioni qui formulate potrebbero estendersi anche ad altre scienze.
Il ruolo di intellettuale, emerso a fine ‘800, non è attribuito sulla base del possesso di una lista di determinate caratteristiche. Secondo Bauman, l’intellettuale assume «un ruolo peculiare nella vita della società», che in virtù del proprio “eccezionale sapere” può – in alcuni casi deve – prendere posizioni su materie di pubblico interesse e parimenti, affinché sia veramente “intellettuale”, si assume la responsabilità di quanto espresso (Bauman, Bongiovanni, 2024).
Illustri studiosi, considerati giuristi e intellettuali (come si è detto, per esempio, di Tullio Ascarelli, Emilio Betti, Piero Calamandrei, Norberto Bobbio, cfr. Luzzati, 2022) vengono tutt’oggi ricordati, oltre che per il proprio contributo scientifico, per lo spessore culturale e per le conoscenze eclettiche che consentivano loro di essere “vigili” e in grado di decifrare finanche anticipare le trasformazioni del diritto e, più in generale, della società.
Non voglio insinuare che un bravo accademico (giurista o meno) debba necessariamente essere anche un intellettuale o, tanto meno, viceversa, ricordando che due tra i più grandi intellettuali italiani del ‘900, Benedetto Croce e Antonio Gramsci, non erano accademici. Più dimessamente, si potrebbe comunque ambire a preservare un mondo accademico i cui membri, oltre che attenti studiosi della propria materia, siano altresì persone di una certa levatura culturale e con un approccio duttile allo studio del diritto, aperto a ricercare e generare interconnessioni con altre discipline. Da un lato, tale apertura potrebbe concorrere a un salto di qualità nell’attività di indagine e di produzione scientifica rispetto a questioni che talvolta richiedono, per l’intrinseca trasversalità, uno studio ampio che si espanda oltre il perimetro del proprio settore disciplinare. Dall’altro, essa potrebbe orientare e finanche plasmare la formazione di quelle giovani e quei giovani che intraprendono un percorso di studio dottorale.
Naturalmente, con il dottorato non si esaurisce lo spazio da dedicare allo studio “a 360 gradi”, dovendo esso rappresentare un impegno che accompagni la persona in tutta la sua vita accademica; il dottorato è però il momento in cui la/il giovane apprende un metodo. Di conseguenza, è ragionevole ritenere che se si imposta la formazione dottorale nel senso di porre al centro sì lo studio del diritto (o di qualsiasi altra materia oggetto del percorso formativo), ma anche l’accrescimento dell’intero bagaglio culturale, vi siano maggiori probabilità che l’approccio aperto e trasversale venga assimilato e seguito per tutta la carriera accademica.
Siffatto “obiettivo culturale” è perseguibile nella misura in cui si riconosce che l’ampliamento della sfera di conoscenze richiede tempo e dedizione e se si accetta, di conseguenza, di lasciare alle giovani menti la possibilità di dedicarvisi, ponendo in secondo piano lo svolgimento di altre attività. In altre parole, la comprensione e l’assimilazione di “pilastri” delle scienze filosofiche, sociologiche, o giuridiche, per esempio, necessitano, soprattutto all’inizio del percorso universitario, di un impegno che mal si concilia con l’agenda attualmente imposta alla generalità delle/i dottorande/i, in particolare con la richiesta di un’elevata e costante produzione scientifica. Si tratta dunque di trovare un giusto equilibrio, che consenta alle/i dottorande/i di ampliare e consolidare le proprie conoscenze, ma altresì di contribuire allo sviluppo del dibattito scientifico con propri elaborati.
Una necessaria postilla: la riflessione di cui sopra si dimostrerebbe miope se non tenesse presente l’evoluzione della funzione del dottorato di ricerca negli ultimi anni (su cui, per più accurate argomentazioni, si rinvia al citato post di Giulio Vesperini), il cui obiettivo formativo non è più rivolto solamente alle istituzioni universitarie ma si allarga anche alle libere professioni e alla pubblica amministrazione (si pensi, per esempio, alla recente p.d.l. C. 1609 per la valorizzazione del titolo di dottore di ricerca nella p.a.). D’altra parte, però, poiché il dottorato costituisce la porta di ingresso imprescindibile per chi voglia intraprendere la carriera accademica, le considerazioni svolte non paiono inficiate da tale recente evoluzione e dovrebbero poter valere almeno per coloro che svolgono il dottorato con l’intento di proseguire l’attività di ricerca.