Una lettura critica della relazione che accompagna il disegno di legge costituzionale in materia di ordinamento giurisdizionale

di Sergio Bartole, professore emerito di Diritto costituzionale nell’Università di Trieste

C’è un aspetto curioso nella vicenda della iniziativa governativa del disegno di legge costituzionale con norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare. Nella relazione di apertura, sulla quale intendo qui soffermarmi per cogliere la “filosofia” della proposta, c’è un ricorrente tentativo di presentare l’iniziativa come la prosecuzione dell’esperienza nostrana in atto nel campo della giurisdizione con pretesa di conseguente svolgimento di alcuni che sono indicati come i principi fondamentali di un assetto ottimale di quel potere. La separazione delle carriere di magistrati giudicanti e requirenti è definita “conforme alla struttura più coerente con le regole del processo penale”. Nonostante la separazione, si afferma che “la funzione giurisdizionale è esercitata dalla categoria dei magistrati ordinari” inclusiva di giudicanti e requirenti, per cui vanno ribaditi i principi dell’autonomia e indipendenza statuiti all’art. 104 Costituzione. I poteri del Presidente della Repubblica non soffrono limitazioni, anche se con la nuova disciplina egli non è più presidente di un unico Consiglio della magistratura, ma presiede separatamente i due distinti consigli superiori, uno per la magistratura giudicante ed uno per quella requirente, la cui vicepresidenza spetta in entrambi i casi ad uno dei consiglieri “non togati”. Infine l’Alta Corte disciplinare viene presentata come “l’esito di uno sviluppo naturale”, in quanto darebbe ulteriore svolgimento alle peculiari caratteristiche del giudizio disciplinare esercitato dalla sezione disciplinare dell’attuale Consiglio con particolare riguardo alla tipicità, appunto, della materia disciplinare ed alla “connotazione giurisdizionale che il relativo procedimento ha assunto”.

L’insieme di questa presentazione è decisamente fuorviante nella misura in cui la sottolineatura ricorrente di elementi di analogia e continuità fra l’assetto attuale della giurisdizione e quello disegnato dalla proposta di legge costituzionale nasconde le vere ragioni di quest’ultima e le più che considerevoli novità che mira ad introdurre. Tali novità non sono destinate a riflettersi solo sui modi dell’esercizio della funzione giurisdizionale, che si vuole propria e di magistrati requirenti e di magistrati giudicanti, ma non potranno non avere conseguenze sulla stessa articolazione dei poteri dello Stato, dando al comparto dei procuratori e delle procure una configurazione – come vedremo – ben diversa da quella presente.

Anzitutto conviene, tuttavia, accennare ad alcune scelte di linguaggio, posto che gli stessi autori della relazione si compiacciono di avere sostituito “l’anacronistica espressione” «promozioni» con locuzioni “più coerenti con il principio di indipendenza”, quali “valutazioni di professionalità” e “conferimenti di funzioni”: intento lodevole che forse avrebbe richiesto un excursus storico della materia dall’iniziale sistema delle promozioni e della progressione stipendiale all’attuale ordinamento che molto valorizza le valutazioni dell’apparato e del collegio del Consiglio superiore richieste per l’assegnazione delle funzioni. Più impegnativo appare comunque un palesemente necessario chiarimento sull’affermazione che sia magistrati giudicanti che requirenti esercitano la funzione giurisdizionale, il che implica una parificazione di funzioni particolarmente strana in un contesto che dovrebbe vedere separate le due categorie di magistrati. Forse sarebbe stato meglio parlare in generale di ordinamento e funzioni giudiziarie, rinviando ad un secondo passaggio la distinzione fra attribuzioni giurisdizionali ed attribuzioni requirenti.

In effetti, la separazione di carriere di cui si ragiona non può non implicare una differenziazione di funzioni che nella relazione si vuole conformata sui principi del processo penale, nel senso che evidentemente l’attività degli organi che svolgono e presentano richieste e conclusioni, e l’attività di chi su quelle richieste e conclusioni è chiamato a prendere decisioni, non possono non risultare distinte. Del conseguente assetto organizzativo molto si è ragionato in passato, ma poco si dice nella relazione a giustificazione della proposta di separare le carriere, e così si evita di riprendere argomenti cari ad una parte della politica e della stampa, per non parlare dell’associazionismo degli avvocati penalisti. In particolare, di questi argomenti e discussioni non si riprende il motivo conduttore per cui andrebbe evitato che giudici e procuratori appartengano ad uno stesso ordine, il che li indurrebbe ad essere particolarmente ben disposti a fare proprie le rispettive ragioni secondo preconcetti addebitabili alla comunanza di carriera.

La separazione che si propone esclude che il pluralismo di cui si ragiona come una caratteristica del governo dei due comparti del giudiziario viva anche della compresenza in un unico organo di governo di membri di derivazione giurisdizionale o procuratoria. Anzi, di quel pluralismo si mostra di avere una qualche diffidenza, giacché sia per i membri togati che per quelli laici netta prevalenza è data alla scelta per sorteggio. Alla base di questo orientamento stanno due ordini di considerazioni: da un lato, quella per vero fumosa, ma definita “virtuosa”, che l’autogoverno è “patrimonio fondamentale di ogni magistrato” e, dall’altro lato, l’affermazione dell’esigenza di assicurare il superamento delle logiche elettoralistiche “che non hanno offerto buona prova di sé”. Se ne ricava una concezione solipsistica di una vicenda quale quella dell’autonomia e indipendenza che non può non avere una dimensione collettiva, sia perché collettivi sono gli interessi alla cui cura sono preposti gli organi relativi, sia perché, nel confronto con gli altri poteri e negli eventuali conflitti, solo quella dimensione può assicurare forza sufficiente, con il supporto delle concezioni culturali e professionali che guidano e orientano la formazione delle associazioni di magistrati.

Per quanto nella relazione governativa si sostenga il contrario, la duplicazione dei consigli superiori e le modalità di scelta dei loro membri riducono i poteri di salvaguardia dei principi costituzionali, con la mediazione e il coordinamento che la presidenza dell’attuale Consiglio superiore assicura al Capo dello Stato, poteri tutti che fanno di questo suo ruolo qualcosa di più di una funzione cerimoniale rappresentativa. Divise, le sue due presidenze non gli consentono di esercitare il mandato di garanzia che il testo attuale della Costituzione gli assicura.

La creazione dell’Alta Corte disciplinare rappresenta un ulteriore elemento di deviazione dalla scelta di tenere separate le carriere di magistrati giudicanti e magistrati requirenti, in quanto nasce dall’idea che il contenzioso disciplinare riguardante i due comparti non soltanto debba ispirarsi agli stessi principi costituzionali, ma sia destinato a confrontarsi con una sostanzialmente identica tassonomia di illeciti, come sembra desumersi dalla motivazione per cui spetta a questo unico giudice disciplinare “promuovere un livello professionale e deontologico omogeneo per tutti gli appartenenti” alla magistratura. Laddove, se le due attività sono distinte in termini che giustificano la separazione, gli illeciti relativi dovrebbero risultare diversamente tipizzati e richiedere per i due ordini un approccio tecnicamente differenziato rispetto alle peculiarità delle diverse attività e al relativo patrimonio di strumenti tecnici e metodologici. A meno di non credere, come ingenui commentatori un tempo credevano, che gli illeciti disciplinari abituali dei magistrati riguardassero l’esistenza di rapporti extraconiugali con le mogli di cancellieri e segretari… Viene, però, spontaneo chiedersi se il modo di formazione del collegio con enfasi del sorteggio non lasci intravvedere l’esistenza di un collegio debole e integralmente dipendente dall’interpretazione data alla normativa legislativa disciplinare dagli organi cui spetta la promozione dell’azione disciplinare. Il che certamente non rappresenta un fattore di garanzia per i magistrati interessati e può costituire un elemento di pericolo per la loro autonomia e indipendenza.

Ovviamente la debolezza delle difese dell’autonomia e indipendenza del giudiziario affidate ad una concezione solipsistica dei magistrati – per quanto ha tratto a quello che la relazione governativa chiama l’autogoverno dei due comparti dell’ordine, il ricorso alla sorte per la scelta dei membri dei due consigli, con le conseguenze negative per l’associazionismo di magistrati requirenti e giudicanti, ed il ridimensionamento dei poteri del Capo dello Stato – si ripercuotono sulle garanzie in ordine alla posizione costituzionale del giudiziario da cui possono trarre vantaggio i cittadini. Ma vi è un ulteriore aspetto della proposta governativa di cui merita prendere atto. Si suole dire che la riconduzione sotto il governo di un unico consiglio superiore assieme ai magistrati giudicanti produce un vantaggio in termini di orientamento culturale ed educazione professionale dei procuratori in tema di garanzia e rispetto dei diritti, correggendone positivamente un istituzionale orientamento persecutorio. Con la separazione delle carriere questo fattore di garanzia rischia di venire meno, e d’altra parte può cambiare la posizione di procure e procuratori nel quadro dei rapporti fra i poteri.

In effetti procure e procuratori vengono a costituire, a cagione della separazione delle carriere e della duplicazione dei consigli superiori, un’istituzione separata e distinta tutta orientata alle indagini sulle eventuali responsabilità penali dei cittadini, e certamente motivata a concludere quelle indagini con una pretesa di colpevolezza. Non solo, sino alla loro sottoposizione al giudizio degli organi giudicanti quelle indagini possono spaziare sino a coprire, ad esempio, quelle attività amministrative cui il presente Governo pretende di assicurare la copertura, escludendone la rilevanza penale in relazione alle indagini delle procure. Sul lungo periodo non è da escludere, è anzi probabile, che questo corpo separato e distinto venga sempre più ad assomigliare a quelle Prokurature dei Paesi del socialismo reale di cui era temuta l’attività svincolata da ogni limite e controllo interno. Con la recezione da parte di quei Paesi dei principi del costituzionalismo occidentale le Prokurature sono state tolte di mezzo, ed ivi non vi è più spazio per lo strapotere di poteri inquirenti a sé stanti. Ironicamente la presente riforma, nata per contenere supposti sviamenti di potere del comparto giudiziario costituito di magistrati giudicanti e requirenti, potrebbe così sfociare in un enlargement dei poteri di questi ultimi, con enfatizzazione del ruolo delle procure nel sistema dei poteri. A meno che l’accennato indebolimento delle garanzie di indipendenza ed autonomia non apra le porte ad uno stretto rapporto di dipendenza dall’Esecutivo del comparto delle procure, come già oggi molti temono.   

Per chiudere, conviene ritornare a quanto si è detto all’inizio a proposito delle ripetute affermazioni dei presentatori che il disegno di legge costituzionale in commento si riconnette ai principi dell’ordinamento giudiziario in vigore, svolgendoli e perfezionandone l’implementazione.  L’esame che si è fatto della relazione vorrebbe dimostrare che chi vuole seriamente approcciare l’iniziativa governativa deve necessariamente prescindere da quelle affermazioni, per confrontare i possibili esiti voluti o sperati dal Governo con una non addomesticata visione dell’assetto attuale dell’ordinamento giudiziario. Il che significa anche prendere atto di alcuni sviamenti del sistema per proporne correttivi, senza però pretendere di stravolgere il sistema in atto.